C’è bisogno di un sogno per il mondo che voglio!
4 giugno 2019 – Roma, CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), Convegno nazionale organizzato dall’Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale.
Il mio intervento:
Sono davvero felice di essere qui oggi e ringrazio la Professoressa Alessandra Sannella per avermi voluto offrire l’opportunità di portare la mia testimonianza in un contesto così autorevole.
La disabilità risiede nella società e non nella persona. Questa è la riflessione da cui sempre parto quando sono invitato a presentare il mio progetto “A nuoto nei mari del globo”.
La maggior parte delle persone con disabilità la mattina, quando si sveglia, ha grandi difficoltà nel pianificare una giornata e spesso, purtroppo, è costretta ad accontentarsi della semplice immaginazione. I motivi di questa triste realtà li conosciamo tutti molto bene: l’impossibilità, per molti, di accedere ai dispositivi protesici e gli ausili corrispondenti alle proprie esigenze; le abitazioni e gli edifici pubblici molto spesso sprovvisti di adeguati ed elementari strumenti di accesso ed uscita, come un semplice ascensore o una ancora più banale rampa; le difficoltà per entrare a pieno titolo nel mondo del lavoro: tutti ostacoli che provocano come è ovvio disistima nei confronti di se stessi. In più, se penso ai bambini e agli adolescenti, il quadro si fa ancora più desolante visto che in alcune zone del nostro Paese le scuole sono architettonicamente inaccessibili o, realtà ancora più grave – sempre che sia possibile e lecito stilare una classifica di gravità in contesti come questo – prive d’insegnanti di sostegno, compromettendo quindi il diritto al pieno sviluppo culturale e sociale a cui tutti dovremmo avere accesso in egual misura. E inoltre, ma non ultimo, il peggiore degli ostacoli che una persona con disabilità, insieme alla sua famiglia, si trova spesso a dover affrontare, la solitudine.
Tutto questo accade anche perché il progresso che deriva dalla ricerca scientifica e tecnologica non è distribuito equamente, i suoi risultati non sono disponibili per tutti in egual misura. E perché la società in cui viviamo sta portando ad un isolamento pericoloso, alla celebrazione egoistica del benessere dell’individuo a scapito di quello della collettività.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ci fornisce dati davvero spaventosi: ogni anno sono oltre un milione le amputazioni che vengono eseguite a causa del diabete. Ogni 30 secondi a una persona viene amputato un arto inferiore.
Il numero dei nuovi casi di cancro per anno salirà da 14 a 22 milioni nei prossimi due decenni.
Le malattie rare sono circa 6000, e l’80% ha un’origine genetica. Secondo stime recenti, nell’Unione Europea, circa 30 milioni di persone soffrono di una malattia rara, solo in Italia sono circa 2 milioni e di questi il 70% è rappresentato da bambini.
Sottolineo questi numeri terribili perché la loro grandezza dovrebbe, io credo, chiarire la necessità, urgente, di affrontare il problema della disabilità con parametri nuovi, passando dal concetto di mera assistenza a quello di inclusione e partecipazione, e per fare questo è necessario promuovere percorsi di ascolto finalizzati al raggiungimento dell’autonomia attraverso la valorizzazione delle capacità di ognuno, e tenere sempre a mente che anche in questo campo, anzi soprattutto in questo campo, è necessario applicarsi rivolgendo uno sguardo che sia lungo e progettuale.
In questo senso quindi, negli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda ONU 2030, rientrano appieno anche le problematiche relative al mondo della disabilità perché soltanto nell’inclusione e nel contrasto alle diseguaglianze, e contestualmente nella valorizzazione delle differenze, è possibile creare un mondo che sia ospitale per tutti. Il diritto alla salute, previsto anche nella nostra Costituzione, significa anche che ogni persona deve poter godere di condizioni di vita dignitose e soddisfacenti, e partendo dalla mia esperienza io posso oggi affermare che questo è possibile soltanto insieme, in un percorso collettivo nel quale ognuno collabori al benessere dell’altro con gli strumenti di cui dispone.
Parlo della mia esperienza perché da quando ho fatto del nuoto uno strumento di comunicazione – e nuoto sicuramente meglio di come parlo! – ho incontrato sempre persone meravigliose e disponibili, impegnate da tempo in percorsi di accoglienza e in progetti che puntano a trasformare le difficoltà in occasioni di crescita e arricchimento. Credetemi, non è retorica: nel video che avete visto c’è gioia, entusiasmo, amore e tutto ciò in un territorio, la regione del Kivu nella Repubblica Democratica del Congo, martoriato dalle guerre e dalla povertà. Ho portato questa esperienza, fra le tantissime che ho vissuto in tutto il mondo, perché qui più che altrove ho potuto toccare con mano quanto sia importante, addirittura risolutivo, lavorare insieme e collettivamente per migliorare le condizioni di vita delle persone.
I dati drammatici forniti dall’OMS ci insegnano che nel mondo oltre 1 miliardo di persone vivono con una disabilità. Sono persone che ogni giorno, appunto, si confrontano con ostacoli più o meno grandi come le barriere architettoniche, ma anche con resistenze culturali e sociali, e questi sono i muri da abbattere urgentemente. Per farlo bisogna intervenire su due piani, quello scientifico e tecnologico e quello politico, sociale e culturale.
È necessaria l’elaborazione di una tecnologia costruita col solo proposito di fare del bene, di avvicinare le differenze individuali, unire il talento sui luoghi di lavoro, migliorare la qualità della vita di tutti, di creare quelle condizioni che favoriscano un punto di partenza ideale per tutti. Unendo le forze della comunità scientifica e della politica insieme alla società civile si potrà aiutare ogni persona a realizzarsi, senza distinzioni di età, abilità fisiche o capacità cognitive. Il risultato sarà un mondo più intelligente, connesso, inclusivo e accessibile per tutti.
Per raggiungere questo obiettivo bisogna democratizzare le tecnologie, vale a dire, sostenere la progettazione universale, cioè progettare soluzioni in grado di adattarsi senza soluzione di continuità alle capacità di qualsiasi persona e tramite qualunque legislazione, allo scopo di rendere abitudini, interazioni e decisioni più facili e intuitive. Con più di un miliardo di persone con disabilità a livello globale, inclusa una fetta crescente di popolazione anziana, il bisogno di accessibilità cresce, e pone per la società tutta la necessità di sviluppare un sistema capace di rispondere alle esigenze di tutti.
Grazie alla progettazione universale, l’accessibilità diventerà sempre più diffusa, capace di intuire in ogni contesto le esigenze, le abitudini e le interazioni sociali, in modo da poter costruire esperienze anche personalizzate a seconda delle abilità di ognuno di noi.
La fruizione degli spazi pubblici, il godimento dei beni cultura¬li, la creazione di nuovi modelli e servizi di turismo per tutti, ma anche la semplice mobilità quotidiana, e i piani di accessibilità urbana, sono le nuove sfide che la nostra società deve affrontare se vuole evitare di violare i diritti civili, non solo delle persone con disabilità.
In conclusione, sono convinto che tutti, I giovani in particolare, potrebbero trovare in una società equa e giusta un punto di confronto utile ed avviare un processo di cambiamento vero e profondo, un processo che contempli finalmente parole come integrazione e inclusione e che valorizzi le differenze e consenta a tutti di contribuire ad uno sviluppo diverso di questo nostro pianeta, uno sviluppo che non lasci né indietro né fuori più nessuno.
Coinvolgere la diversità umana nel progetto universale è l’assioma su cui si basa la concezione di una società accessibile.
Un caro saluto, Salvatore Cimmino
Straordinaria e intensa testimonianza! Onorati della riflessione scientifica e umana che ci hai proposto